Libreria Torriani di Luigi Torriani (foto di Nicola Vicini)

Libreria Torriani di Luigi Torriani (foto di Nicola Vicini)

venerdì 26 aprile 2013

Mario Giordano. Tutti a casa!




Mario Giordano, "Tutti a casa! Noi paghiamo il mutuo, loro si prendono i palazzi" (Mondadori, rilegato, pagg. 172)

Se avete comprato una casa pagandola fino all'ultimo centesimo, siete fessi. E se avete investito nelle quattro mura i risparmi di una vita, siete fessi al quadrato. Perché gli altri che fessi non sono, cioè i furbi, quelli che contano, che sanno muoversi, che hanno un papà importante o un marito ministro, quelli che conoscono o sono conosciuti, quelli che gestiscono il potere o perlomeno lo frequentano, la casa l'hanno avuta in ben altro modo. E, sicuramente, facendo meno sacrifici di voi.
Il presidente del Senato e quello della Corte dei conti, lo sceriffo di Equitalia e il grande sindacalista, l'ex presidente della Consob e quello della Lega Calcio, il medico del Papa e il magnifico rettore, l'ex ministro dell'Economia e il capo dell'Inps, gli alti burocrati e i grand commis di Stato, il rampollo del senatore e la figlia del deputato, le star del cinema e quelle della musica: ecco alcune delle tante persone citate in questo libro.
Sono diverse per età, formazione culturale, ruolo e partito politico, ma hanno tutte una passione in comune: quella per il mattone.
Comprano molto e, soprattutto, comprano con lo sconto, spesso da un ente pubblico previdenziale: 30, 40, fino al 70-80 per cento in meno del valore di mercato.
Risultato: quello che è accaduto negli ultimi vent'anni in Italia è un vero e proprio saccheggio del nostro patrimonio immobiliare, avvenuto quasi sempre nel rispetto della legge, ma con meccanismi incredibilmente perversi che questa sconvolgente inchiesta vi svelerà. Per esempio, com'è possibile comprare una casa dal Comune di Roma pagandola 26.000 euro, cioè meno di un camper? Perché esistono interi palazzi di Roma che, appartamento dopo appartamento, vengono comprati e rivenduti lo stesso giorno? Dall'appartamento «a sua insaputa» di Scajola ai villoni di Lusi e Fiorito, negli ultimi tempi i potenti hanno dimostrato un debole per il settore immobiliare. Ma non avremmo mai immaginato fino a che punto.

Rachelle Bergstein. Le donne dalla caviglia in giù




Rachelle Bergstein, "Le donne dalla caviglia in giù. Storia delle scarpe e delle donne che le hanno indossate" (Mondadori, rilegato, pagg. 236)

"Le donne dalla caviglia in giù" ripercorre la storia delle calzature femminili nel Ventesimo Secolo, dalle scarpe delle suffragette, che miravano alla comodità e a liberare i piedi delle donne dalla "morsa dell'estetica", fino ai costosissimi tacchi a spillo della Carrie Bradshaw di Sex and the City, passando per i tacchi di Marilyn Monroe, le ballerine di Audrey Hepburn, le scarpe da ginnastica di Jane Fonda, le Doc Martens di Gwen Stefani, gli stivali di Wonder Woman.
Ma la storia delle scarpe è fatta anche di straordinari artigiani, di imprenditori lungimiranti, di stilisti coraggiosi e visionari: da Ferragamo, che ha studiato anatomia del piede, a Manolo Blahnik, che non si è fatto scoraggiare quando le suole di gomma di una sua creazione si sono piegate, al dottor Maertens, che ha creato uno stivale adatto a sostenere un piede infortunato, fino ai fondatori della Nike, che vendevano scarpe dal cofano della macchina.

Rachelle Bergstein è laureata in letteratura inglese al Vassar College e lavora come consulente in un'agenzia letteraria di New York. Vive a Brooklyn con il marito, un gatto e le sue scarpe.

Giorgio Cosmacini. La scomparsa del dottore



Giorgio Cosmacini, "La scomparsa del dottore. Storia e cronaca di un'estinzione" (Raffaello Cortina, pagg. 160)

Nei decenni seguiti al secondo dopoguerra, la meritoria figura del “mio dottore”, come si usava dire, è entrata via via in dissolvenza, si è consumata, svuotata, fino a lasciare di sé, soprattutto nelle generazioni più mature, soltanto un ricordo permeato di rimpianto. Oggi “il dottore” non c’è più, ma quello che conta, al di là dell’elogio del passato, è non rassegnarsi all’idea che i suoi pregi e principi debbano considerarsi un patrimonio irrimediabilmente perduto. La diagnosi della “scomparsa del dottore” formulata qui da Giorgio Cosmacini può essere la premessa di una prognosi che anticipa, auspica se non altro, con lo sguardo rivolto ai medici di domani, un recupero dei valori di cui quella figura era depositaria.

Mauro Corona. Confessioni ultime




Mauro Corona, "Confessioni ultime" (Chiarelettere, libro di pagg. 118 + dvd di 44')

Pensieri e racconti di vita. Le "Confessioni ultime" sono il diario intimo di Mauro Corona, su libertà, silenzio, memoria, corpo, fatica, invidia, orgoglio, competizione, amore, amicizia, dolore, morte, Dio e la fede.
Con un videoreportage di Giorgio Fornoni in dvd. Le musiche di Nick Cave e Warren Ellis, tratte dal film “The Assassination of Jesse James”, accompagnano Mauro Corona in un viaggio a Erto, “paese di crolli e di dolore”, cinquant’anni dopo la tragedia del Vajont. Dalla tana rifugio in cui vive e lavora ai luoghi della sua quotidianità, 44 minuti che raccontano in presa diretta uno tra gli scrittori italiani più letti e amati.

giovedì 25 aprile 2013

Maurensig. L'arcangelo degli scacchi




Paolo Maurensig, "L'arcangelo degli scacchi. Vita segreta di Paul Morphy" (Mondadori, rilegato, pagg. 206)

Sessantaquattro caselle. Trentadue figure. E una possibilità combinatoria pressoché infinita. Nessuna partita di scacchi è uguale a un'altra. Ognuna è una sfida unica, giocata su quel quadrato magico che è la scacchiera: quasi un mondo fuori dal mondo.

Paul Morphy (1837-1884) è stato un autentico artista della scacchiera, forse il più grande. Nella sua brevissima parabola, sospesa sull'esile filo che separa la genialità dalla follia, ha incarnato alla perfezione l'essenza del "nobile gioco".

Paul nasce a New Orleans, da una famiglia facoltosa, nel 1837. Ha solo quattro anni quando rivela il proprio straordinario talento. A dodici anni è già il più forte giocatore della Louisiana e, non ancora maggiorenne, si laurea campione degli Stati Uniti con una facilità disarmante. A quel punto non gli resta che affrontare i più famosi campioni europei, e soprattutto quello che molti considerano il migliore al mondo: Howard Staunton. A nulla valgono le suppliche della madre, e neppure della sua amata Adele. L'ambizione di Paul non conosce ostacoli. Come un cavaliere, sprezzante di qualunque premio che non sia la gloria, Morphy parte per la sua missione accompagnato da un ambiguo scudiero, il giornalista Frederick Milnes Edge, lasciando la solatia città natale per smarrirsi nelle nebbie londinesi.
Chi era in realtà Paul Morphy? Quali accadimenti spensero la fiamma del suo genio, inducendolo ad abbandonare per sempre gli scacchi all'apice della carriera, e a ritirarsi in una grigia esistenza di solitudine?

Paolo Maurensig è nato a Gorizia nel 1943. Ha esordito nel 1993 con La variante di Lüneburg (Adelphi), grande successo a cui ha fatto seguito quello di Canone inverso (1997), il primo di numerosi romanzi pubblicati per Mondadori: L'ombra e la meridiana (1998), Venere lesa (1998), L'Uomo Scarlatto (2001), Il guardiano dei sogni (2003), Vukovlad (2006), Gli amanti fiamminghi (2008). Sempre per Mondadori ha pubblicato Il golf e l'arte di orientarsi con il naso (2012), dedicato alla sua passione per il golf, mentre alla storia degli scacchi è ispirato anche il recente racconto L'ultima traversa (Barbera 2012).

Kawabata. Prima neve sul Fuji




Kawabata Yasunari, "Prima neve sul Fuji" (Einaudi, a cura di Giorgio Amitranopagg. 226)

Torna nelle librerie, per Einaudi collana Letture, questa raccolta di racconti (anno 1958) del giapponese Kawabata (1899-1972, Nobel per la letteratura 1968), già edita in Italia da Mondadori, in volume da tempo fuori catalogo.

"In queste storie Kawabata non solo prende in prestito con disinvoltura gli strumenti della psicologia e della sociologia, ma si rivela attento alle suggestioni della cronaca e anche a quelle della letteratura rosa (del resto, egli stesso pubblicava volentieri abili romanzi di consumo su riviste femminili). In queste scene di vita coniugale la varietà di registri è tale da mettere in crisi per sempre lo stereotipo di un Kawabata algido e ton sur ton" (Giorgio Amitrano)

Kawabata Yasunari nasce a Osaka nel 1899. Negli anni Venti è attivo nei movimenti di avanguardia letteraria attenti alle coeve sperimentazioni europee. Con un gruppo di giovani scrittori e registi fonda la «scuola delle nuove sensazioni» che si proponeva di cogliere la realtà attraverso l'immediatezza delle percezioni. Il suo primo libro esce nel 1926 ed è una raccolta di racconti: La danzatrice di Izu. Nel 1930 è la volta del primo romanzo: La banda di Asakusa. Dopo la guerra mette a punto il suo stile piú maturo recuperando in chiave moderna forme e valori della tradizione giapponese. Escono i romanzi Il paese delle nevi (1948, nei tascabili Einaudi), Mille gru (1952), Il disegno del piviere (1953, nei tascabili Einaudi), Il maestro di go (1954), Il suono della montagna (1954) e i racconti di Prima neve sul Fuji (1958). Dopo i suoi piú importanti romanzi degli anni Sessanta (La casa delle belle addormentate, 1961; Bellezza e tristezza, 1965, nei tascabili Einaudi) gli viene assegnato il premio Nobel nel 1968. Muore a Zushi nel 1972 asfissiato dal gas in casa sua, forse suicida. Un volume dei «Meridiani» raccoglie i suoi piú importanti Romanzi e racconti a cura di Giorgio Amitrano (Mondadori 2003).

mercoledì 24 aprile 2013

Jack London. Vita, opere e avventura




Daniel Dyer, "Jack London. Vita, opere e avventura" (Mattioli 1885, immagini, pagg. 176)

Autore di alcune tra le storie più avvincenti della letteratura americana (Zanna Bianca, Martin Eden, Il richiamo della foresta, ...), Jack London (1876-1916) ebbe una vita avventurosa quanto quella di un personaggio di uno dei suoi romanzi. Nacque a San Francisco, in California, il 12 gennaio 1876 in una famiglia di operai. Abbandonata la scuola a undici anni, fece di tutto per guadagnarsi da vivere: il pirata di ostriche, il marinaio, il cacciatore di foche, l'operaio. A diciannove anni riprese gli studi. Difensore dei diritti della classe lavoratrice, tenne discorsi infiammati. Abbandonato il college, deciso a diventare scrittore, venne coinvolto in una delle avventure più entusiasmanti del diciannovesimo secolo: la corsa all'oro del Klondike. Autodidatta, a soli ventinove anni era già uno degli autori più popolari del mondo. Negli anni successivi fu reporter di guerra in Corea e Messico, tentò di fare il giro del mondo e organizzò una comunità auto-sufficiente nel suo immenso ranch californiano. E ovviamente scrisse libri e racconti che lettori di tutte le età continuano a leggere e a studiare ancora oggi. In questa biografia emerge la figura di Jack London e l'epoca tumultuosa in cui visse. Corredata da molte foto, ecco l'avventura di una vita affascinante, i cui dettagli si rivelano memorabili come le storie scritte e raccontate dallo stesso protagonista. In appendice il testo "Cos'è la vita per me" di Jack London, nella traduzione di Davide Sapienza, tratto dalla raccolta "Rivoluzione".


"Si è scritto talvolta che la migliore storia di Jack London è stata la sua biografia. In poco meno di 41 anni, accumulò un tale bagaglio di avventure e di successi da bastare per parecchie vite.  A 17 anni s'imbarcò per il Mar del Giappone per una battuta di caccia alla foca. A 18 era un vagabondo che viaggiava in treno senza pagare il biglietto e percorreva la nazione in lungo e in largo. Tornato a casa, in California, s'immerse nello studio come autodidatta. A 19 anni si iscrisse alla scuola superiore come matricola. Voleva scrivere, ma ogni cosa che scriveva veniva respinta dagli editori. Nell'estate del 1897 - quando Jack stava per archiviare i suoi sogni - si sparse la notizia di un favoloso ritrovamento di oro nello Yukon canadese, negli affluenti di un fiume poco conosciuto, chiamato Klondike. Con l'aiuto di suo cognato, si diresse verso nord alla ricerca dell'oro. E lo trovò. Non nelle miniere, ma grazie all'esperienza che accumulò durante l'anno trascorso nello Yukon. Quando tornò a casa, era l'estate del 1898, traboccava di idee da raccontare. Ancora una volta cercò di affermarsi come scrittore, e ancora una volta ebbe scarso successo. Poi, pian piano, i suoi scritti cominciarono a vendersi. Nel giro di cinque anni, Jack divenne uno scrittore di successo, i suoi lavori comparivano sulle migliori riviste e sui giornali di grande diffusione. Nell'arco di dieci anni divenne lo scrittore più popolare del mondo, e anche uno dei più pagati. Prima di morire, nel 1916, la sua opera gli aveva procurato tutti gli agi possibili, dagli yachts a un ranch di 1400 acri in una bella valle californiana"


http://www.ilgiornale.it/news/cultura/jack-london-romanzo-talento-vagabondo-razzista-e-socialista-909480.html


martedì 23 aprile 2013

Insieme in vetta. le cordate famose e le loro imprese




Alessandro Gogna-Alessandra Raggio, "Insieme in vetta. Le cordate famose e le loro imprese" (Mondadori, pagg. 228)

"Ho imparato che nella vita le cordate (non solo quelle alpinistiche) si formano e si scelgono non sulla base delle convenienze ma di un feeling particolare. E quando questa sintonia è speciale, arrivano successi analoghi." Così ha dichiarato il noto alpinista Simone Moro in una intervista rilasciata prima della partenza per il tentativo di prima ascensione invernale del Gasherbrum II in Karakorum (Pakistan), ascensione portata a termine con successo in 22 giorni il 2 febbraio 2011, insieme al kazako Denis Urubko e all'americano Corey Richard.

Fare cordata è un'esigenza istintiva e fondamentale, una cooperazione dove l'uno deve avere cieca fiducia nell'altro: per questo il termine "cordata" ha trasceso il suo significato puramente alpinistico per rappresentare un'unione ideale e concreta, tesa a raggiungere uno scopo comune affrontando insieme avversità e imprevisti. La storia dell'alpinismo offre un ricchissimo campionario di cordate, imprese straordinarie il cui racconto permette di capire a fondo le motivazioni dei singoli nella costruzione degli obiettivi e l'atteggiamento mentale che permette loro di fronteggiare le situazioni più difficili.

Nella storia dell'esplorazione delle montagne di tutto il mondo, dal XIX secolo a oggi, alcune cordate si sono particolarmente distinte per l'eccellenza e la quantità dei successi ottenuti. Questo libro narra le vicende umane e i forti legami che hanno caratterizzato venti fra le più grandi cordate di sempre: dalle scalate di fine Ottocento di Albert Frederick Mummery e Alexander Burgener a quelle di Riccardo Cassin e Vittorio Ratti negli anni Trenta, dalle imprese di Reinhold e Gunther Messner a quelle dei fratelli Huber. 

sabato 20 aprile 2013

Ahmed Rashid. Pericolo Pakistan




Ahmed Rashid, "Pericolo Pakistan" (Feltrinelli, pagg. 224)

Un'analisi sul campo di un paese in cui si giocano i futuri equilibri geopolitici mondiali. “Dovrebbe diventare lettura obbligatoria alla Casa Bianca" (Financial Times)

La prima istantanea ritrae i Black Hawk americani che calano silenziosi su Abbottabad, Pakistan. Ventitré militari penetrano nel compound che nasconde Osama Bin Laden, lo finiscono con una pallottola alla testa e una al petto, catturano la sua famiglia, si allontanano portando con loro il corpo del terrorista, cinque computer, vari hard disk, più di cento memorie flash. Allargando lo sguardo, Ahmed Rashid ricostruisce uno scacchiere su cui si muovono tre protagonisti. Da un lato gli Stati Uniti di Barack Obama, divisi tra la promessa di pacificazione della regione e le derive di un’azione contraddittoria, gestita da lobby politiche e militari in lotta. Dall’altro l’Afghanistan, un paese oppresso dal regime talebano, devastato da trent’anni di guerre ininterrotte, segnato da un intervento americano militarmente inefficace e politicamente incapace di costruire le basi per un’alleanza futura. E infine il Pakistan. Formalmente alleato degli Usa. Di fatto preda di un’élite corrotta, militari spietati, servizi segreti doppiogiochisti. E transfughi jihadisti sistematicamente accolti e sostenuti nella loro azione. Solo un impegno finalmente coerente da parte degli Stati Uniti – questa la tesi di Rashid – potrà risollevare una popolazione martoriata e stabilizzare una nazione e un’area esplosiva. Un’area dalle cui sorti dipendono il destino della potenza americana, il suo posizionamento rispetto a Cina e India, il suo effettivo contributo a un nuovo equilibrio mondiale. Nove istantanee per raccontare il Pakistan di oggi, dopo il successo planetario ottenuto da Rashid con "Talebani". Nove capitoli per stilare una precisa, sconvolgente analisi politico-militare su un paese decisivo nel conflitto che infuria in Asia centrale.

Luzzatto. Partigia




Sergio Luzzatto, "Partigia. Una storia della Resistenza" (Mondadori, rilegato, pagg. 380)

I "partigia" erano - secondo un modo di dire piemontese - i combattenti della Resistenza spregiudicati nell'uso nelle armi: decisi, e svelti di mano. A loro Primo Levi ha intitolato una poesia del 1981. Narratore formidabile, Levi ha steso però un velo di silenzio sulle settimane da lui trascorse come ribelle nella valle d'Aosta dell'autunno 1943, prima della cattura e della deportazione ad Auschwitz. Non ha alluso che di sfuggita a un "segreto brutto". Scavando in quel segreto, e allargando lo sguardo dalla valle d'Aosta all'Italia del Nord-Ovest Sergio Luzzatto racconta - attraverso una storia della Resistenza - la storia della Resistenza. Il dilemma della scelta, quale si pose dopo l'8 settembre ai giovani di una nazione allo sbando. L'amalgama di passioni e di ragioni dei refrattari all'ordine nazifascista. Il problema della legittimità e della moralità della violenza. Luzzatto restituisce figure vere, non santini della Resistenza o mostri di Salò. Eppure i protagonisti di "Partigia" si rivelano essi stessi, a loro modo, figure esemplari. E personaggi memorabili. Così un partigiano come Mario Pelizzari, l'"Alimiro" che da Ivrea combatté una personalissima sua guerra contro il male nazifascista. Così un collaborazionista come Edilio Cagni, la spia che tradì la banda di Levi prima di diventare, dopo la Liberazione, informatore degli americani. Anche Primo Levi è qui una figura vera, diversa dal santino. Un Levi testimone della Soluzione finale del problema ebraico, ma anche testimone degli aspetti più scabrosi di una guerra civile.

Sergio Luzzatto insegna Storia moderna all'università di Torino. Sulla Rivoluzione francese, ha pubblicato per Einaudi L'autunno della Rivoluzione (1994), Il Terrore ricordato (2000) e Bonbon Robespierre (2009). Sul Novecento italiano, ancora da Einaudi, Il corpo del duce (1998) e Padre Pio (2007). Con Victoria de Grazia, ha curato per Einaudi i due volumi del Dizionario del fascismo (2002-03); con Gabriele Pedullà, i tre volumi dell'Atlante della letteratura italiana (2010-12).
Ha scritto da Einaudi i pamphlets La crisi dell'antifascismo (2004) e Il crocifisso di Stato (2011). I suoi interventi pubblicistici sono stati raccolti da manifestolibri: Sangue d'Italia (2008), I popoli felici non hanno storia (2009), Presente storico (2012). Suoi libri sono tradotti in inglese, francese, tedesco, giapponese.


Di seguito l'ottima recensione al libro scritta da Paolo Mieli per il Corriere della Sera:

"E' un'«alba di neve» che è entrata nella storia della letteratura italiana: quella del 13 dicembre 1943. Una «spettrale alba di neve» (così viene definita nella seconda edizione di Se questo è un uomo, pubblicata da Einaudi nel 1958), nel corso della quale Primo Levi fu arrestato in Val d'Aosta assieme a Luciana Nissim, Vanda Maestro e ad alcuni partigiani ai quali si era unito da pochi giorni. Nell'edizione di Se questo è un uomo del '58 (nella prima, del 1947, queste pagine non comparivano), Levi, a sorpresa, lascia cadere che il suo arresto, da cui sarebbe per lui iniziato il viaggio alla volta di Auschwitz, fu «conforme a giustizia». «Conforme a giustizia»? In che senso? E da un tentativo di dare spiegazione a quelle tre parole che prende l'avvio uno straordinario libro di Sergio Luzzatto che sta per essere dato alle stampe da Mondadori: Partigia. Una storia della Resistenza. Vediamo come andarono i fatti. Lì tra i partigiani di Col de Joux, raccontava Levi, «mancavano gli uomini capaci, ed eravamo invece sommersi da un diluvio di gente squalificata, in buona fede e in malafede, che arrivava lassù dalla pianura in cerca di una organizzazione inesistente». Così si spiega come mai lui e altri nbelli della prima ora caddero quasi subito in mano ai fascisti. Ma perché definire quella cattura «conforme a giustizia»? «Giustizia», osserva Luzzatto, «non è una parola qualunque, meno che mai nel vocabolario di Primo Levi». E cosa può spiegare poi «una rappresentazione della Resistenza delle origini tanto dissacrante, o comunque tanto dissonante rispetto alla mitologia antifascista sui primi partigiani della montagna»? Una traccia utile a chiarire il mistero, Luzzatto l'ha trovata in un altro libro di Levi, scritto nel 1975: II sistema periodico (Einaudi). Qui lo storico resta colpito dal fatto che, sulle 238 pagine del volume, la Resistenza non ne occupi più di quattro. Nel capitolo intitolato «Oro» pochi I documenti processuali Dopo la guerra alcuni ebrei e antifascisti presero le difese del prefetto repubblichino di Aosta Cesare Augusto Carnazzi capoversi sono dedicati alla salita in montagna, alle settimane «d'attesa più che d'azione», alla caduta della banda del Col de Joux, all'arresto dell'autore e di alcuni suoi compagni. E solo due pagine evocano «il trasporto a valle, gli interrogatori subiti nella prigione di Aosta, la decisione del catturato di ammettersi ebreo piuttosto che partigiano, cioè di votarsi alla deportazione verso chissà dove piuttosto che al deferimento al Tribunale militare speciale della Repubblica di Salò». Perché, continua a domandarsi Luzzatto, questa «avarizia narrativa riguardo alla Resistenza»? Ed ecco che in altre righe Luzzatto trova una seconda traccia utile alla sua ricerca. Queste: «Fra noi, in ognuna delle nostre menti pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere». E ancora: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l'avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente... Adesso eravamo finiti e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c'era uscita se non all'in giù». Così il Levi del 1975 indicava in un episodio del suo partigianato l'origine diretta della sua «caduta negli inferi del Lager». «Faccio lo storico da trent'anni, ma nessuna ricerca mi ha mai interpellato, appassionato, travagliato come la ricerca su questa storia di resistenza», scrive l'autore. Travaglio che ha implicato un'indagine «sino in fondo» sul «segreto brutto» della banda del Col de Joux. Il «segreto brutto» di Primo Levi. Leggendo tra le righe i libri di Levi, Luzzatto si è imbattuto in una precedente «alba di neve» che, scrive, «non è entrata nella storia della nostra letteratura, o che ci è entrata (più esattamente) in una forma criptata, nel 1975, attraverso le dodici righe del Sistema periodico». Sono le prime luci del mattino del 9 dicembre 1943, appena sei giorni prima dell'arresto di Levi e degli altri «partigia» (questo era il nome che si davano tra loro uomini e donne della Resistenza in Piemonte e Val d'Aosta, di qui il titolo del libro) della banda di Amay, capitanata da Guido Bachi e da Aldo Piacenza. Quel giorno, il diciottenne Fulvio Oppezzo di Cerrina Monferrato (nome di battaglia «Furio») e il diciassettenne Luciano Zabaldano di Torino (nome di battaglia «Mare») vengono fatti uscire da una baita di Frumy e uccisi dai loro compagni con il «metodo sovietico», cioè a freddo, senza annunciar loro la morte imminente. L'imputazione — assai generica per quel che è dato ricostruire — è di essersi comportati male con i valligiani e di aver rubato. «Non c'è un processo istruttorio che li accusi di un reato preciso, non ci sono documenti che rimandino alla condanna, e allora l'accusa che li riguardava poteva essere anche diversa, in ogni caso aveva a che fare con l'indisciplina e con azioni che mettevano a rischio l'incolumità degli altri componenti della banda, intaccando la possibilità di guadagnare fiducia presso gli abitanti del luogo, di cui si aveva un bisogno estremo», ha raccontato recentemente Frediano Sessi in Il lungo viaggio di Primo Levi (Marsilio), dove si parla di quella «storia taciuta» della Resistenza. Si tratta in ogni caso di una «punizione» inflitta ai due giovani che, prosegue Sessi, «le fonti storiche disponibili autorizzano a ritenere smisurata rispetto all'entità delle colpe di cui Oppezzo e Zabaldano potevano essersi macchiati». Per Levi quello dell'uccisione a freddo di Oppezzo e Zabaldano è un evento traumatico. «Fra le due albe», scrive Luzzatto, «si consuma l'intero destino della banda del Col de Joux, perché l'esecuzione della sentenza lascia Levi e i compagni distrutti, desiderosi che tutto finisca e di finire essi stessi». Spegne in loro, secondo il Levi di oltre trent'anni dopo, «ogni volontà di resistere, anzi di vivere». Nessuno sa se Primo Levi il 9 dicembre 1943 «fosse salito dall'albergo Ristoro verso il Col de Joux, se avesse contribuito a scavare le due fosse»: «Immagino di sì», afferma Luzzatto, «perché risulta che le due donne di Amay, Luciana Nissim e Vanda Maestro, fossero state fatte allontanare dal luogo dell'esecuzione; il che induce a credere che gli uomini fossero presenti... Immagino di sì anche perché il numero dei componenti della banda era talmente ridotto (Levi ne conterà dodici in totale, donne comprese) da suggerire che tutti gli uomini abbiano dovuto spalare la neve abbondante e scavare la terra ghiacciata dove tumulare senza bara i corpi dei due uccisi». E poi c'è una spiegazione che Luzzatto deriva dall'esegesi di una poesia di Levi, «Epigrafe», scritta nel 1952, e inclusa nella raccolta del 19?5 Ad ora incerta, in cui lo scrittore torna ad alludere all'episodio con i toni di chi ne ha avuto esperienza diretta. È questo il «cuore di tenebra» della storia: la banda del Col de Joux — che fino al 9 dicembre non aveva compiuto «alcuna azione resistenziale di rilievo» e che di li a quattro giorni, 11 13, sarebbe stata facilmente sgominata dai rastrellatori di Salò — «poté risolversi a far scorrere il sangue di due compagni come un atto dovuto di giustizia», scrive Luzzatto. «La necessità in cui i partigiani si trovarono durante la Resistenza di sopprimere uomini entro le loro stesse file, per le ragioni più diverse e variamente grave , prosegue, «ha rappresentato a lungo un tabù della storiografia». Tabù violato solo dalla letteratura, con i personaggi, ad esempio, del Vecchio Blister di Beppe Fenoglio odi Morti male di Saverio Tutino. Ma la nostra storia è ancora più complicata. Finita la guerra, Oppezzo e Zabaldano furono «risarciti» con la loro trasformazione in «eroi trucidati dai fascisti». Nell'Albo d'oro della Resistenza valdostana, su un totale di 186 caduti durante i venti mesi della guerra civile, solo tre sono i nomi dei partigiani uccisi nel 1943. E due di questi tre sono quelli di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, che la pubblicazione presenta pudicamente come «deceduti». A guerra appena conclusa, aveva provveduto il capo partigiano Guido Bachi a far ricadere in qualche modo sulla spia fascista Edilio Cagni la responsabilità della loro morte. Nel suo «Verbale di denunzia» contro Cagni, Bachi sostiene che era stato il traditore a suggerire di far fuori nel modo «più sbrigativo» i refrattari alla disciplina. L'antifascista Bachi ne parlava come se i brutali sistemi suggeriti dal fascista Cagni «non fossero stati diligentemente applicati, almeno quella volta, dai partigiani del Col de Joux». «Da storico dei partigia», denuncia Luzzatto, «leggo e rileggo la denuncia di Bachi e mi dico che il dopoguerra di una guerra civile è pure questo: un redde rationem in cui si può imputare ai vinti anche quanto commesso dai vincitori». Quanto ai due partigiani uccisi, la «riparazione» procedette nel dopoguerra per vie separate. Zabaldano già nel maggio del 1946 fu riconosciuto dalla Commissione regionale piemontese per la Resistenza come un «partigiano caduto valorosamente con onore e gloria nella Lotta di Liberazione per l'onore d'Italia, per la Libertà e per una migliore Giustizia sociale nel Mondo» (le maiuscole sono nel documento), senza che si avvertisse l'obbligo di specificare chi l'avesse ucciso. Ma, scrive Luzzatto, «a me che dopo aver tanto studiato gli eventi del Col de Joux guardo oggi la foto del monumento a quei caduti sullo schermo del computer, il silenzio della lapide intorno al segreto brutto non sembra corrispondere — in ultima istanza — a una forma di occultamento, e meno che mai a una bugia... Non va forse considerato anche lui, il diciassettenne che nell'ultima sera della sua vita, all'albergo Ristoro di Amay, aveva manifestato idee comuniste, un martire della Resistenza?». E qui sono particolarmente intense le pagine di Partigia dedicate al racconto di un recente incontro tra l'autore e un nipote di Zabaldano, Davide, il quale spiega perché, pur avendo intuito cosa accadde a Col de Joux in quelle prime ore del 9 dicembre del '43, non ha voluto riaprire il caso: «Vorrei soltanto capire che cosa è successo e perché», gli dice. Per il resto, niente scandali postumi, è sufficiente il risarcimento del 1946. Più complicata la storia post mortem di Fulvio Oppezzo, che deve il suo recupero a un prete del suo paese, don Ferrando, e alla madre («una specie di professionista del lutto», scrive Luzzatto, che «insisteva con tutti, batteva a tutte le porte affinché al figlio venisse intitolato un qualche luogo di memoria»). Operazione riuscita. Tant'è che oggi anche a lui sono intitolate — sia pure con un nome sbagliato, «Opezzo» (senza una p) — una piazza e una scuola di Cerrina Monferrato. Ma torniamo al protagonista di questo racconto. Una storia particolare, quella del ventiquattrenne ebreo Primo Levi, dalla Resistenza ad Auschwitz. Nell'agosto del 1943, Levi era stato in vacanza a Cogne. Poi aveva deciso di prolungare la sua permanenza in montagna, all'albergo Ristoro di Amay assieme alla madre e alla sorella, in attesa che le cose, dopo l'armistizio dell'8 settembre, si chiarissero. Allora non c'era la percezione di quel che sarebbe potuto accadere: «Pare che la situazione ebraica continui a migliorare», scrive in quei giorni sul suo diario Emanuele Artom, sulla base del fatto che il governo Bado- glio aveva abrogato il divieto agli israeliti di pubblicare necrologi, di tenere a servizio «domestici ariane , di frequentare le stazioni di villeggiatura. In quel momento i pericoli corsi dagli ebrei erano qualcosa di «assolutamente evidente, ma anche di amministrativamente impreciso», scrive Luzzatto. Almeno fino al 3o novembre, quando il ministero dell'Interno della Repubblica sociale italiana diramò l'ordine di polizia numero 5, che ne disponeva l'arresto. Certo, già a metà settembre, il suo zio paterno e suo cugino, Mario e Riccardo Levi, erano stati (assieme ad altri loro correligionari) arrestati e uccisi dai tedeschi sulle rive del Lago Maggiore. Ma fi in montagna, fino al 3o novembre, ci si sentiva quasi al sicuro. Anche se le persone del luogo avevano individuato in quelli come Levi «un'insperata opportunità economica, essendo gli ebrei tanto più disposti a pagare per il vitto e l'alloggio in quanto non facevano turismo ma lottavano per la sopravvivenza». Sicché quei valligiani imposero loro quelle che Luzzatto definisce «tariffe di ospitalità indistinguibili dallo strozzinaggio». Poi, dopo l'ordine di polizia numero 5, per gli ebrei «il problema della scelta si restrinse a un'alternativa secca: o nascondersi da qualche parte, o diventare partigiani... e la secchezza dell'aut aut contribuisce a spiegare perché gli italiani di origine israelita infoltirono i ranghi della Resistenza ben al di là della loro proporzione numerica sul totale della popolazione nazionale». Va dunque chiarito che Primo Levi, pur essendo già schierato da almeno un anno contro il fascismo, «non era salito in montagna per votarsi senza indugio alla macchia e alla guerriglia, poiché sarebbe stato illogico farlo portandosi appresso la sorella minore e la madre cinquantenne; né era salito per rispondere alla chiamata ideale di una resistenza antifascista, poiché una chiamata del genere si era a malapena sentita all'indomani immediato dell'8 settembre, la resistenza degli uni o degli altri non era divenuta da subito una Resistenza con la lettera maiuscola». Ed è, dunque, in conseguenza all'ordine di polizia numero 5 che, ai primi di dicembre, Levi si unì alla banda partigiana. Per un'esperienza durata pochi giorni, quelli che intercorsero prima che fosse preso dai soldati della Rsi e tornasse a essere soltanto un ebreo. Ma perché, una volta catturato, si dichiarò ebreo? Aldo Piacenza (arrestato con Levi, poi fuggito e tornato a combattere nella Resistenza) —, un uomo che pure, osserva Luzzatto, «durante la campagna di Russia aveva assistito con i suoi occhi a terribili scene di Soluzione finale del problema ebraico» — poteva ancora ritenere che Primo Levi rischiasse conseguenze più gravi da partigiano attivo che da ebreo nascosto, «da ribelle più che da imbelle». Da ebreo «imbelle», in altre parole, pensava di correre rischi minori. Non poteva credere che «l'occupazione tedesca avesse reso l'Italia di Salò un territorio di caccia analogo all'Europa orientale, un luogo come un altro della geografia continentale dello sterminio». Sicché Piacenza «poteva illudersi di far cosa generosa insistendo sulla condizione di israelita dell'amico, e presentandolo ai saloini come totalmente innocuo dal punto di vista politico e militare». E gli uomini stessi della Repubblica sociale «potevano, al limite, accomodarsi nell'ambiguità della situazione... Potevano non farsi troppe domande sul destino degli ebrei arrestati e avviati al campo di concentramento di Fossoli di Carpo. Così il 20 gennaio del 1944, Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro — per volontà anche e soprattutto del prefetto Cesare Augusto Carnazzi — partirono da Aosta alla volta di Fossoli, tappa intermedia sulla via di Auschwitz. Per gli altri, rimasti in montagna, la guerra continuava. Quello del 1944 fu un inverno di azioni militari. Nell'estate, dopo la liberazione di Firenze in Italia, di Parigi e Marsiglia in Francia, da noi a Nord si continua a combattere. La piega che ha preso la guerra nel mondo infonde «nuova energia agli uomini delle bande», però maschera appena «la debolezza di zone libere, sì, ma isolate»: sono «enclaves antifasciste in una Valle d'Aosta che resta saloina e germanica lungo l'asse principale». Va detto che «la libertà dei partigiani non coincide necessariamente con quella dei valligiano. Come potrebbero questi ultimi «ritenere libere zone dove i viveri sono prelevati forzosamente, gli animali vengono requisiti, i beni più preziosi (i grassi, il sale, la legna per l'inverno) vengono gestiti dai ribelli nemmeno fossero roba loro»? E come potrebbero guardare con favore a guerriglieri i quali, attaccando i tedeschi e i fascisti, ne provocano le sanguinose rappresaglie? L'estate del 1944 «segna così un massimo di espansione territoriale del movimento partigiano, ma anche un contrasto sempre più acuto fra il grosso delle popolazioni montanare e quanti un professore ribelle in Valtournenche, Ettore Passerin d'Entrèves, prima ancora della Liberazione definirà (mettendoci lui le virgolette) gli "idealisti", i "pochi eletti"». Passerin d'Entrèves descriveva quella del «partigia», soprattutto nel «tragico autunno» del 1944, come una «tragica figura» alla Don Chisciotte. «fl vile buon senso dei più», scriveva, «tende decisamente a disapprovare la "follia" dei pochi che impegnano la gioventù in disperate avventure». Questo per mesi e mesi di combattimenti. Finché arriva il 25 aprile del 1945, la Liberazione. Finita la guerra, si è costretti a registrare, scrive Luzzatto, «il sovrappiù di rabbia, di odio, di brutalità documentato dalle cronache di quella primavera italiana, il dantesco contrappasso che venne inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Queste le parole che usa Luzzatto: «contrappasso inflitto dagli antifascisti a tanti fascisti». Nell'Italia della Liberazione, prosegue, «la vendetta era tanto assaporata quanto per un quarto di secolo era stata sospirata la giustizia». E a essere brutalmente passati per le armi non furono solo coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò. La liberazione di Casale, ricorda Luzzatto, costò cara, per esempio, a Mario Acquaviva, «un antifascista di lungo corso — da comunista si era fatto anni di galera sotto il regime di Mussolini — che pagò con la vita la sua dissidenza dal partito di Togliatti, e il suo ruolo di dirigente in una piccola compagine trockijsta, il Partito comunista internazionalista». L'il luglio del 1945, Acquaviva fu raggiunto per strada, vicino alla stazione ferroviaria di Casale, da due killer a volto scoperto che gli spararono al torace e all'addome. Gli assassini non vennero mai identificati, ma, scrive Luzzatto, «si ha ragione di ritenerli sicari operanti per conto del Pci astigiano». Siamo dunque a Casale Monferrato, che è un po' la retrovia di questa storia. Da Casale a fine ottobre del 1943 si erano mossi i fratelli Francesco e Italo Rossi, che, assieme a Guido ed Emilio Bachi, avrebbero acceso la miccia della Resistenza nell'intera regione. Da Casale il comandante della piazzaforte germanica, Wilhelm Meyer, aveva ordinato l'8 ottobre del 1944 l'eccidio di Villadeati, in Valcerrina. A Casale, a metà gennaio de11945, sarebbe stata sgominata e trucidata dai nazisti la banda partigiana di Antonio Olearo (nome di battaglia, «Tomo). A Casale nel settembre de11947 un gruppo di ex partigiani avrebbe occupato la città per protesta contro la mancata condanna a morte degli uccisori di «Tom». «Indomiti o ingenui, risoluti o patetici, i casalesi provarono a fare come se la Resistenza non fosse ancora finita», scrive Luzzatto recuperando le vivide descrizioni dei fatti del '47 di Giovanni Giovannini sulla «Stampa». E da Casale viene quel Giampaolo Pansa (che ha raccontato come da bambino vide l'ingresso in città del capo partigiano Pompeo Colajanni, «aspetto fiero e splendidi baffi», talché lo scambiò per uno dei moschettieri, Porthos) con le cui tesi Sergio Luzzatto si misura in modo sorprendentemente aperto. Sorprendentemente perché Luzzatto, che ha sempre duramente contrastato l'autore del Sangue dei vinti, tratta adesso Pansa con grande rispetto e considerazione. A ridosso della Liberazione, scrive Luzzatto, tutto finì, secondo la «vulgata revisionista», in «un calderone di vendette individuali e collettive, punizioni infamanti, esecuzioni sommarie, stragi nascoste dove nulla si inventa (almeno sotto la penna di Pansa, che ha rispetto per la storia), ma dove tutto si somiglia, senza considerare la specificità dei contesti che resero ciascun episodio della primavera 1945 diverso da ogni altro». Laddove è evidente che si opera una distinzione tra la «vulgata» e gli scritti di Pansa, ai quali va un riconoscimento che più esplicito non si potrebbe. Dunque, scrive uno studioso animato in partenza da devozione alla «vulgata resistenziale», negli scritti di Pansa «nulla si inventa» e, soprattutto, c'è «rispetto per la storia». Una mano tesa. Un modo di (provare a) superare gli schieramenti che da oltre dieci anni si sono creati sui modi di raccontare quel che accadde dopo il 25 aprile. È lo stesso Luzzatto a riferire di essersi a lungo interrogato sul «fenomeno Pansa» come «sintomo di una crisi dell'antifascismo». Sintomo di cui ha rinvenuto traccia «insegnando all'università, trovandomi di fronte studenti sempre più equidistanti, estranei ai valori dell'antifascismo quasi altrettanto che ai disvalori del fascismo». E stato il «fenomeno Pansa» a determinare in lui «l'intenzione di misurarmi — da figlio e da padre, da cittadino e da insegnante — con questo snodo della moderna storia d'Italia, con il dramma della nostra guerra civile». E lo ha fatto andando, proprio, a scavare in quelle pieghe della storia che negli ultimi venti anni hanno attirato l'attenzione di Giampaolo Pansa. Interessanti, in questo quadro, sono le pagine dedicate ai processi del dopoguerra contro l'ex prefetto Cesare Augusto Camazzi, che trovò, disposte a difenderlo, molte persone insospettabili di connivenza con i nazifascisti. Come Guido Usseglio, primario alle Molinette, capo partigiano in val Sangone, che, quando gli avevano arrestato il fratello Sebastiano, era andato da Carnazzi per farlo liberare (ciò che aveva ottenuto), trovandolo «una figura aperta, leale, buona», e avendo la sensazione di potersi «fidare di lui». Ancor più colpito è l'autore di Partigia dall'aver rinvenuto in archivio, «dopo aver maturato una mia idea di Camazzi come funzionario antisemita se non come antisemita militante», una lettera del 7 agosto 1945 di sette componenti della famiglia ebraica Gerber, che attestavano «con cuore commosso» la loro «perenne gratitudine» a Carnazzi per aver ottenuto la revoca della condanna a morte di uno dei figli, il ventiduenne Ladislao, atto che definivano «la sua opera buona e generosa con la quale ha salvato la vita di un giovane e ciò senza alcun interesse ma solo per grande bontà». «Il partigiano ebreo salvato dal prefetto antisemita: sembra una storia inventata, ma non lo è (o non lo è del tutto)», quasi si sorprende Luzzatto. Curiose furono anche le condizioni in cui i14 maggio del 1946 si svolse il processo a Cagni, l'uomo che aveva tradito Primo Levi e lo aveva fatto arrestare. Processo a dir poco frettoloso: i testimoni, riepiloga Luzzatto, «deposero a un ritmo tale che non sempre i cancellieri ebbero il tempo di registrarne correttamente le generalità». Giuseppe Barbesino, che accusava Cagni di averlo torturato, figura negli atti del dibattimento come «Barbesino Vincenzo», sindaco di Gerolamo d'Alba, un paese che non esiste. L'avvocato Camillo Reynaud, che aveva creato la banda di Col de Joux, fu identificato come «Reynaud aw. Vincenzo». Luciana Nissim, figlia di Davide, divenne «Nissi Luciana di Domenico», e le furono attribuiti 33 anni invece dei 26 che aveva. Anche a Primo Levi, all'epoca ventiseienne, l'età fu aumentata a 32 anni e il suo mestiere di chimico fu trasformato in quello di «ingegnere». «Decisamente la storia aveva fretta, nell'aula del Tribunale di Aosta, fra il mattino e il pomeriggio di quel sabato primaverile», scrive Luzzatto. Fretta di punire in un primo tempo, di dimenticare poi. In mezzo c'era stata, il 22 giugno del 1946, l'amnistia voluta dal guardasigilli, nonché leader del Pci, Palmiro Togliatti. Profondamente diverso è il paesaggio dei dieci anni successivi alla Liberazione. «Un decennio abbondante», scrive Luzzatto, «durante il quale l'aver combattuto per la Resistenza poté sembrare, allo sguardo di un numero imprecisato di italiani, un titolo di demerito piuttosto che di merito... Anche perché la scommessa azzardata dal segretario comunista Togliatti attraverso l'amnistia — competere con la Democrazia cristiana sul terreno di un'integrazione politica degli ex fascisti — si ritorse contro il movimento resistenziale, avendo suggerito una forma di equiparazione giudiziaria tra collaborazionisti di Salò e partigiani delle montagne, cosa che legittimò presso l'opinione pubblica moderata un'immagine della guerra civile quale scontro fra due fazioni analoghe per natura, se non comparabili per sistemi di valori». Così Cagni viene condannato una prima volta (1946) a morte, una seconda (1947) a trent'anni, una terza (1949) a venti, e poco dopo (195o) può uscire di galera. Luzzatto dimostra che, però, anche quando avrebbe dovuto essere in prigione, nella seconda metà degli anni Quaranta, in realtà Cagni si muoveva da uomo libero, con il nome di «Sognatore italico», per riorganizzare i fascisti, in combutta con i servizi segreti alleati. Dopodiché, «maestro consumato del doppio o del triplo gioco, mostro romanzesco di bravura e di perfidia», Cagni riesce a eclissarsi, pur se qualche sua traccia si rinviene ancora negli anni Settanta. E una storia a un tempo normale ed eccezionale di un «collaborazionista scampato alla giustizia dei fucili e consegnato alla giustizia delle toghe». E da queste messo in condizioni di tornare in libertà, sparire e farsi armo-lare, come ai tempi del «Sognatore italico», da nuovi padroni"

Sandel. Quello che i soldi non possono comprare




Michael J. Sandel, "Quello che i soldi non possono comprare. I limiti morali del mercato" (Feltrinelli, pagg. 240)

Spendereste qualcosa in più per saltare una coda? Accettereste dei soldi per farvi tatuare il corpo con messaggi pubblicitari? È etico pagare le persone perché sperimentino nuovi farmaci pericolosi o perché donino i loro organi? E che cosa dire dell’assumere mercenari per combattere le nostre guerre? O del comprare e vendere il diritto di inquinare? O del mettere all’asta le ammissioni alle università d’élite? O ancora del vendere il diritto di soggiorno agli immigrati disposti a pagarlo? Non c’è qualcosa che non funziona in un mondo dove tutto è in vendita?

Negli ultimi decenni, i valori del mercato sono riusciti a soppiantare logiche non di mercato in quasi ogni ambito della vita: la medicina, l’educazione, il governo, la legge, l’arte, gli sport, persino la vita familiare e le relazioni personali. Quasi senza accorgercene, sostiene Sandel, siamo così passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato. Nel suo bestseller internazionale "Giustizia", Sandel aveva illustrato i complessi dilemmi morali con cui dobbiamo confrontarci nella vita quotidiana. Ora, in questo nuovo libro, affronta una delle massime questioni etiche del nostro tempo: qual è il giusto ruolo dei mercati in una società democratica e come si fa a tutelare i beni morali e civili che i mercati non rispettano e che i soldi non possono comprare?

Michael J. Sandel è professore di Filosofia politica e Teoria del governo alla Harvard University. I suoi corsi ad Harvard sono molto famosi e in particolare quello popolarissimo anche all’estero intitolato Justice (visibile online: www.justiceharvard.org). Sandel è spesso ospite di università in Europa (tra cui Oxford e la Sorbona) e in Asia, e le sue opere sono state tradotte in ventuno lingue. In Cina è stato definito “il più influente straniero dell’anno” nel 2010. Dei suoi libri in italiano ricordiamo: Il liberalismo e i limiti della giustizia (Feltrinelli, 1994), Contro la perfezione. L’etica nell’età dell’ingegneria genetica (Vita e Pensiero, 2008) e Giustizia. Il nostro bene comune (Feltrinelli, 2010).

venerdì 19 aprile 2013

Eserciti di carta. L'informazione in Italia




Ferdinando Giugliano-John Lloyd, "Eserciti di carta. Come si fa informazione in Italia" (Feltrinelli, pagg. 288)

Lo stato di salute del giornalismo italiano è una delle questioni più dibattute degli ultimi anni. Lo scontro intorno alla figura di Silvio Berlusconi ha portato la discussione su quale debba essere il ruolo della stampa a un tale livello di animosità e litigiosità da rendere pressoché impossibile qualsiasi tipo di analisi obiettiva e imparziale. Ferdinando Giugliano e John Lloyd, due giornalisti del “Financial Times”, hanno cercato di compiere l’operazione più difficile: esaminare con distacco, profondità e competenza il panorama del nostro giornalismo, tracciandone la cartografia e provando a individuarne i pregi, i problemi, le tare ereditarie e le prospettive di cambiamento. Vista dall’estero, l’informazione italiana sembra fondata sul presupposto che l’obiettività e l’equidistanza non siano possibili, che la neutralità rispetto a interessi e fazioni politiche sia irraggiungibile e che i giornalisti non possano evitare di assumere posizioni di parte. Ma è davvero così? Televisione, carta stampata e siti di informazione sfornano solo notizie condite con opinioni? Come funziona l’informazione in Italia? Unendo la loro esperienza da giornalisti, il distacco di chi osserva da lontano e un puntiglioso lavoro di ricerca, fatto di decine d’interviste ai protagonisti del nostro giornalismo (da Ezio Mauro a Vittorio Feltri, da Marco Travaglio ad Augusto Minzolini), Giugliano e Lloyd riescono a collocare la questione al di sopra dell’usurato dibattito sul regime berlusconiano e sull’informazione asservita, andando a illuminare le caratteristiche – e i vizi – di fondo del giornalismo italiano.

Cd. Le novità in libreria



Cd, le novità in libreria:
- Michael Bublé, "To Be Loved" Deluxe Edition (3 bonus tracks)
- Bruce Springsteen, "Collection: 1973-2012"
- Nicola Piovani, "Cantabile"
- Patty Pravo, "Meravigliosamente Patty" (cofanetto 3cd + libro)

http://www.youtube.com/watch?v=8NaYf8F8V1A

http://www.youtube.com/watch?v=f3t9SfrfDZM

http://www.youtube.com/watch?v=Q9wh2-JOAos

http://www.youtube.com/watch?v=4SxQ4g9A0kU

Dvd. Le novità in libreria




Dvd, le novità in libreria:
- Ang Lee, "Vita di Pi"
- Peter Jackson, "Lo Hobbit. Un viaggio inaspettato"

Isherwood. Addio a Berlino




"Addio a Berlino", romanzo del 1939 considerato il massimo capolavoro dello scrittore inglese Christopher Isherwood (1904-1986), racconta la Berlino degli ultimi anni della Repubblica di Weimar (1930-1933)  prima del trionfo del nazismo, anni in cui Isherwood stesso viveva a Berlino. Da questo libro sono stati tratti un musical e i film "La donna è un male necessario" (1955) e poi "Cabaret" di Bob Fosse con Liza Minnelli (1972). In Italia "Addio a Berlino" era già uscito per Garzanti, in edizione oggi fuori catalogo.

"Io sono una macchina fotografica con l'obiettivo aperto" dichiara l'alter ego di Christopher Isherwood arrivando nell'autunno del 1930 a Berlino, dove resterà fino al 1933. Un obiettivo inesorabile, attraverso il quale partecipiamo come dal vivo ai suoi incontri nel cuore pulsante di una Repubblica di Weimar che si avvia al suo fosco tramonto: da un'eccentrica, anziana affittacamere alla sensuale Sally Bowles, aspirante attrice un po' svampita, a Otto, ombroso proletario diciassettenne, a Natalia Landauer, rampolla di una colta famiglia ebrea dell'alta società. Tra cabaret e caffè, tra case signorili e squallide pensioni, tra il puzzo delle cucine e quello delle latrine, tra file per il pane e manifestazioni di piazza, tra crisi economica e cupa euforia – da nulla dettata e in bilico sul Nulla –, Isherwood mette in scena "la prova generale di una catastrofe" e ci fa assistere alla resistibile ascesa del nazismo. E cogliendo con ironia corrosiva i presaghi rintocchi che accompagnano la grandeur di un mondo "inutilmente solido, insolitamente pesante", ci consegna una scabra narrazione che ci ricorda come la Storia – e ogni storia – sia sempre contemporanea.

Sandor Marai. Sindbad torna a casa




Prosegue presso Adelphi la pubblicazione di tutte le opere del grande scrittore ungherese Sándor Márai (1900-1989), l'autore del celebre "Le braci".
"Sindbad torna a casa" (Adelphi, pagg. 200) è un romanzo del 1940.

Sindbad era lo pseudonimo sotto il quale si celava il narratore ungherese Gyula Krúdy, dandy tenebroso, personaggio leggendario della bohème letteraria di Budapest del primo Novecento, celebre autore di numerose novelle e romanzi. Márai lo considerava suo maestro, e lo amò a tal punto che non solo gli dedicò un gran numero di scritti e citazioni sparse, ma ne fece anche il protagonista di questo libro. Dove, in una mattina di maggio, Sindbad esce dalla sua abitazione nel sobborgo di Óbuda con l'intenzione, una volta tanto, di tornare presto e provvisto di denaro e regali per la figlia e la moglie, la donna che "aveva portato nella vita di Sindbad, che stava diventando vecchio, tutto ciò che per cinquantacinque anni il marinaio aveva cercato invano negli ambienti dei caffè, delle stanze riservate ai giocatori di carte, delle bettole impregnate dell'odore di salnitro". Ma dopo aver ceduto alla tentazione di salire su una carrozza pubblica – una delle ultime –, i buoni propositi cominciano impercettibilmente a svaporare, perché "nel rollio di quelle vecchie carrozze a due cavalli di Pest, con le loro molle rotte, c'era ancora qualcosa che ricordava il ritmo fluttuante e oscillante dell'altra vita", il mondo dell'Ungheria di un tempo. E come in sogno, lasciandosi scivolare in una morbida flânerie, Sindbad rivisita quel mondo scomparso vagabondando e indugiando nei luoghi che ancora ne conservano le tracce: dal bagno turco, dove "Occidente e Oriente si confondevano nella nebbia bollente", ai caffè – "pacifiche isole della solitudine, della meditazione, della memoria e dei passatempi silenziosi" –, a uno di quei ristoranti dove ancora si avverte, "nel profumo dello spezzatino e nell'acidulo odore di birra", la sensazione di vita che pervade l'ungherese allorché legge i grandi poeti nazionali. Per imboccare infine la via di casa solo verso l'alba – prendendo congedo, forse per sempre, da quella città dove tutto pare dimezzato, "come se il piccone del tempo avesse demolito il nobile, prestigioso edificio del passato".

giovedì 18 aprile 2013

Cocco & Magella. Ombre sul lago




Dopo il capolavoro "La Caduta" (Nutrimenti, pagg. 228, sempre e per sempre disponibile alla Libreria Torriani), il grandissimo scrittore Giovanni Cocco torna da oggi nelle librerie con "Ombre sul lago", un giallo ambientato tra la val d'Intelvi e il lago di Como, edito da Guanda e scritto con Amneris Magella (pagg. 316)!!!!!
Immediatamente in lettura...

Sulle montagne sopra il lago di Como, durante i lavori di costruzione di una nuova strada verso il confine svizzero, vengono alla luce dei resti umani. A chi appartengono? Quale identità si nasconde dietro la misteriosa sigla K.D. ritrovata su un portasigarette d'argento? E come è coinvolta in tutto questo la potente famiglia Cappelletti, trincerata nella sua villa e nel suo immenso giardino? L'indagine è affidata al commissario Stefania Valenti, quarantacinquenne, separata, con una figlia di undici anni, ostacolata perché donna, ma molto più determinata e in gamba di tanti suoi colleghi maschi. Tra svolte che si succedono come in un dispositivo a orologeria, sempre accompagnate dal vento leggero di Breva, le ricerche affondano a poco a poco nel passato, quando sulle rive del lago transitavano clandestinamente persone e cose: contrabbandieri, disertori, partigiani, agenti segreti, membri della Gestapo, ebrei in fuga, e quadri, oggetti preziosi, denaro. Perché è qui, ben nascosta, che c'è la soluzione del caso...
Una doppia indagine che illumina un presente gravato da intrighi famigliari e pressanti ricordi e insieme un brano cruciale della Storia italiana.

mercoledì 17 aprile 2013

Karl Polanyi. Per un nuovo Occidente






Karl Polanyi, "Per un nuovo Occidente. Scritti 1919-1958 (testi inediti a livello mondiale, il Saggiatore, pagg. 304)

Durante l’ultimo World Economic Forum di Davos si è scritto che un fantasma stava perseguitando i potenti della terra, riuniti nella cittadina svizzera: lo spettro di Karl Polanyi (1886-1964), lo scienziato sociale che, con il celebre libro "La grande trasformazione" (anno 1944, edizione italiana: Einaudi,pagg. 383) raccontò l’impatto della società di mercato e dell’industrializzazione sulla civiltà occidentale, e colse meglio di chiunque altro gli effetti politici, culturali e antropologici della Crisi degli anni Trenta. Oggi, mentre imperversa una nuova Grande Recessione, idee che parevano ormai relegate alle librerie polverose dei dipartimenti universitari sono riemerse in tutta la loro attualità. Prima fra tutte, la questione, fondamentale, del ruolo dell’economia nella società.

Al centro dei SAGGI RACCOLTI IN QUESTE PAGINE, SCRITTI TRA IL 1919 E IL 1958 E INEDITI A LIVELLO MONDIALE, c’è il tentativo di indicare la strada per tornare a un’economia ancorata alla società e alle sue istituzioni culturali, religiose, politiche, in aperta polemica con l’ideologia del laissez-faire. Storico, giurista, antropologo ed economista, decenni fa Polanyi parlava già dei problemi del nostro presente: le distorsioni della democrazia generate dal liberismo sregolato, le conseguenze del capitalismo sull’ambiente, la tendenza alla mercificazione di ogni cosa, il ruolo del potere pubblico nell’affermazione e nella tenuta del sistema economico. La riflessione dello studioso ebreo ungherese sulle filosofie e i modelli istituzionali anglosassoni, continentali, fascisti e sovietici, e sulle loro intersezioni con il sistema economico, sfocia in una proposta alternativa al mercato autoregolato: non un sistema centralizzato, ma un’economia cooperativa, capace di orientare verso un reale progresso umano la produzione e la tecnologia. Una forma di socialismo che elevi a suo valore fondante la libertà della persona, libertà irriducibile alla sola sfera economica e realizzabile soltanto nei legami sociali tra gli individui. E' questo il più formidabile patrimonio culturale dell’Occidente. E sebbene le scelte politiche e l’economicismo abbiano dilapidato tale patrimonio, è solo riscoprendolo che potremo aprirci a un incontro fecondo con le altre civiltà. 

Karl Polanyi (1886-1964), nato a Vienna, si laureò in diritto e filosofia a Budapest. Oppositore del nazismo, dal 1933 si trasferì dall’Austria all’Inghilterra, e infine negli Stati Uniti, dove insegnò per anni alla Columbia University di New York. Singolare figura di pensatore interdisciplinare, è considerato uno dei più importanti storici dell’economia. Tra le sue opere principali: La grande trasformazione (1944); Traffici e mercati negli antichi imperi (1957), Economie primitive, arcaiche e moderne (1968).

Il compagno dell'anima. I Greci e il sogno




Giulio Guidorizzi, "Il compagno dell'anima. I Greci e il sogno" (Raffaello Cortina, pagg. 256)

“Chi è sveglio partecipa al mondo comune, chi sogna si rifugia in uno suo proprio”, dice­va Eraclito. Ogni uomo sperimenta l’alternanza di pensiero cosciente e di immagini incontrollabili che il sogno fa emergere da un apparente nulla, e questo lo pone davanti alla consapevolezza di muoversi tra due universi paralleli organizzati con categorie diverse ma presenti nella mente di ciascuno. Varia tuttavia il senso che ogni civiltà attribuisce all’onirico. Non è un caso che nell’ "Interpretazione dei sogni" Freud abbia costruito la base della sua dottrina partendo da un antico sogno, quello raccontato da Sofocle nell’ "Edipo re". Alle origini della cultura occidentale, infatti, i Greci svilupparono una vera e propria cultura del sogno. Per loro la vita notturna non era marginale e poco significativa, ma un messaggio capace di proiettarsi sulla vita cosciente; ai sogni si chiedevano indicazioni su scelte da compiere, oracoli, persino miracolose guarigioni. Questo libro parla delle differenti funzioni dei sogni nella civiltà greca, sino alla tarda antichità: dai sogni di Omero a quelli che progressivamente vennero studiati da filosofi, scienziati, poeti. Con Platone il sogno diventa ormai quello che sarà in seguito: l’inseparabile compagno dell’anima che lo genera, il prodotto della sua parte più segreta.

Giulio Guidorizzi insegna Letteratura greca all’Uni­versità degli Studi di Torino; ha curato, tra l’altro, i due volumi di Il mito greco per i “Meridiani” Mondadori (2009-2012). Per Raffaello Cortina ha pubblicato "Ai confini dell’anima. I Greci e la follia"(2010)

Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia




"Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico" (Bertold Brecht)

Eric Gobetti, "Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia 1941-1943 (Laterza, pagg. 196)

Negli anni cruciali della Seconda guerra mondiale l’Italia fascista impiega enormi risorse militari, diplomatiche, economiche e propagandistiche per imporre il suo dominio su circa un terzo dell’intero territorio jugoslavo. È una parabola breve, in cui però si condensa tutta la pochezza dell’impero di Mussolini: dai sogni di dominio sui Balcani nella primavera del 1941 al senso di sconfitta nell’estate del 1943. Efficacemente osteggiati dai partigiani di Tito, gli occupanti stringono ambigue alleanze con diverse realtà collaborazioniste, contribuendo a scatenare una feroce guerra civile. Vittime e carnefici al tempo stesso, i soldati del regio esercito combattono con pochi mezzi e scarse motivazioni ideali, costretti a vivere mesi e mesi in condizioni estreme, vinti dalla noia, dalla paura, dall’abbandono e, in fondo, anche dal fascino del ribelle.

martedì 16 aprile 2013

Uto Ughi. Quel diavolo di un trillo




Uto Ughi-Vittorio Bonolis, "Quel diavolo di un trillo. Note della mia vita" (Einaudi, pagg. 192)

Uto Ughi ha soltanto tre anni quando il suo primo maestro, l'amico di famiglia Ariodante Coggi, gli mette in mano un violino minuscolo, e glielo lega al collo perché non cada. Nasce cosí uno dei piú grandi talenti musicali del nostro tempo, un genio della musica che calca, ad appena sette anni, i palcoscenici dei teatri per i primi concerti in pubblico.
Questo libro ripercorre l'apprendistato del musicista, le lezioni con George Enesco, i concerti tenuti in tutto il mondo, i sodalizi artistici con i piú grandi interpreti degli ultimi cinquant'anni, e svela aspetti più privati dell'uomo Uto Ughi, grande amante della letteratura, dei viaggi e della natura.

Uto Ughi (Busto Arsizio 1944) è uno dei piú celebri violinisti del nostro tempo. Si è esibito in tutto il mondo, con le piú rinomate orchestre sinfoniche e i piú importanti direttori d'orchestra. La sua attività discografica è intensa e multiforme. Ha fondato i festival "Omaggio a Venezia", "Omaggio a Roma" e "Uto Ughi per Roma", impegnandosi per la valorizzazione della cultura italiana e dei giovani talenti. Il 4 settembre 1997 il presidente della Repubblica gli ha conferito l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce per i meriti artistici. Nell'aprile del 2002 gli è stata assegnata la laurea honoris causa in Scienze della comunicazione. Suona lo Stradivari del 1701, appartenuto a Rodolphe Kreutzer, il celebre violinista a cui Beethoven dedicò una sonata, e il Guarneri del Gesú "Rose" del 1744, già proprietà di Arthur Grumiaux


"Si creò un buon giro di amici, strumentisti dilettanti che erano soliti riunirsi con il maestro Coggi a casa di mio padre per far musica insieme. Eseguivano il repertorio cameristico con passione. Io avevo circa tre anni: quando a sera arrivavano gli ospiti con i loro strumenti, m'infilavo sotto il pianoforte. Non c'era verso di togliermi da quella specie di tana per mandarmi a dormire, volevo sentire a tutti i costi le musiche che eseguivano. E quando mi accorgevo che qualcuno stonava o sbagliava le note, protestavo a modo mio, fischiando sonoramente. Avevo una grande voglia di suonare, di partecipare anch'io ai concerti. Avevo trovato due piccoli pezzi di legno, uno un po' piatto che mettevo tra il mento e la spalla, e un altro con cui... 'suonavo'! Giravo per casa felice, avevo il 'mio' violino"

Ti sembra il caso? Schermaglia fra un narratore e un biologo




Erri De Luca & Paolo Sassone-Corsi, "Ti sembra il Caso? Schermaglia fra un narratore e un biologo" (Feltrinelli, pagg. 112)

Lo scrittore Erri De Luca (1950- ) e il biologo Paolo Sassone-Corsi (1956- ) sono entrambi napoletani. Sono diventati amici. Anche se Paolo vive e lavora in California, dove insegna (alla University of California). Erri comincia a scrivere, e Paolo risponde. Ne nasce una sequenza di missive in cui si parla di dna, di orologio circadiano, di olfatto, dei ritmi che cadenzano le risposte del corpo – e della psiche – alle sollecitazioni ambientali, e più in generale all’universo. Gli studi di Paolo Sassone-Corsi hanno a che fare, per l’appunto, con i geni clock che producono proteine all’interno di ogni cellula, accendendo risposte cicliche che governano le nostre funzioni fisiologiche. De Luca interroga, sollecita, provoca l’amico lontano. Sassone-Corsi cerca sintonie, spiega, si sottrae alla condizione segregata e oscura dello scienziato. Con leggerezza il clima fraterno del carteggio prende la forma di un’avventura dello spirito – Erri e Paolo sanno entrambi che la nettezza di certe risposte scientifiche corre accanto a un mistero che è ragione del sapere ma anche condizione umana. “Perché siamo qui?” è pur sempre la domanda e la risposta che poesia e scienza continuano a condividere.

venerdì 12 aprile 2013

Charles Mann. 1493: pomodori, tabacco e batteri




Charles C. Mann, "1493. Pomodori, tabacco e batteri. Come Colombo ha creato il mondo in cui viviamo" (Mondadori, rilegato, pagg. 680)

Se nel 1492 qualcuno avesse rivelato ai sovrani di Spagna Ferdinando e Isabella anche solo la metà delle conseguenze che avrebbero avuto i viaggi di Cristoforo Colombo da loro finanziati, molto probabilmente sarebbe stato incarcerato come un volgare truffatore. Nessuno poté fare nulla, invece, contro la forza dirompente della realtà. Già a partire dal 1493, infatti, gli equilibri e gli assetti del pianeta furono letteralmente rivoluzionati: due mondi che, dopo la frattura geologica di 200 milioni di anni prima, erano rimasti estranei e ignoti l'uno all'altro, si incontrarono e si mescolarono, in un processo di reciproca osmosi e contaminazione che, da allora, è diventato sempre più intenso.
Alla luce della storia ambientale, inaugurata da Alfred Crosby con il concetto chiave di "Scambio colombiano", e delle più recenti ricerche antropologiche, archeologiche e storiche, Charles Mann esplora la genesi e l'impetuoso sviluppo di questo "mondo nuovo", unico e globale, nato da un autentico terremoto ecologico. Le navi europee trasportarono oltreoceano - insieme ai coloni e, poi, agli schiavi - migliaia di specie botaniche sconosciute, e ne importarono altrettante. Il che spiega la presenza dei pomodori in Italia, delle arance in Florida, del cioccolato in Svizzera e dei peperoncini in Thailandia. Al traffico di piante e animali s'intrecciò poi la circolazione involontaria e clandestina di altre "creature" che ebbero quasi sempre effetti devastanti sull'ambiente e sulla salute degli indigeni: vermi, zanzare, scarafaggi, topi, funghi, batteri, virus e microrganismi di ogni specie, che s'insediarono nelle nuove terre e modificarono radicalmente paesaggi ed ecosistemi da un capo all'altro del pianeta.
Ma lo sbarco di Colombo ebbe anche altre conseguenze.
Ottant'anni dopo uno spagnolo di nome Legazpi navigò verso oriente per stabilire relazioni commerciali permanenti con la Cina, all'epoca il paese più ricco e potente del mondo. A Manila, la città da lui fondata, l'argento delle Americhe, estratto da schiavi africani e indiani, veniva venduto agli asiatici in cambio di seta per i paesi europei. Per la prima volta, merci e persone di ogni angolo del globo erano coinvolte in un unico mercato mondiale, la base materiale dell'età moderna.
Con avventurose incursioni attraverso i continenti e lungo la linea del tempo, Mann ci mostra alcuni scenari cruciali di quella svolta epocale, dai quali emerge come la creazione di una rete universale di scambi ecologici ed economici abbia favorito l'ascesa dell'Europa, devastato la Cina imperiale e sconvolto l'Africa. Ma dove sono anche ben visibili le radici di alcune delle più scottanti questioni del nostro tempo, dall'immigrazione all'autodeterminazione dei popoli, dalla questione ambientale al cosiddetto "scontro di civiltà".

Riccardo Calimani. Storia degli ebrei italiani




Riccardo Calimani, "Storia degli ebrei italiani. Volume primo. Dalle origini al XV secolo" (Mondadori, rilegato, pagg. 642)

La storia bimillenaria delle comunità ebraiche in Italia è la straordinaria avventura, tanto tormentata quanto poco nota, di una minoranza (poche decine di migliaia di persone) che ha saputo radicarsi capillarmente in tutto il territorio del nostro paese, dalle Alpi alla Sicilia, dal Friuli alla Sardegna. E che, malgrado le umiliazioni e le vessazioni subite da parte delle autorità politiche ed ecclesiastiche locali, è riuscita a salvaguardare sempre le proprie tradizioni e la propria identità culturale senza isolarsi e rinchiudersi in se stessa, ma anzi partecipando attivamente alla vita sociale ed economica dei luoghi in cui si è insediata.
Di questa singolare vicenda, che rappresenta un caso unico nel panorama europeo, Riccardo Calimani ricostruisce qui una prima ampia parte: dalla libera alleanza degli ebrei con la Roma repubblicana e dai secoli dell'esilio, dopo la distruzione di Gerusalemme (70 e.v.) voluta dall'imperatore romano Tito, sino al rimescolamento delle varie comunità ebraiche del Vecchio Continente provocato dalla loro espulsione dalla Penisola iberica alla fine del XV secolo. Il vero punto di svolta di questo complesso itinerario è costituito dall'editto di Costantino (313), che, legittimando la cristianità, inaugura la lunga stagione dell'incontro- scontro tra giudaismo della diaspora e Chiesa di Roma. Un rapporto ambivalente che si riflette nella costante oscillazione nel trattamento da essa riservato per tutto il Medioevo (e oltre) agli ebrei, condannati come popolo maledetto per non aver riconosciuto in Cristo il messia, e nel contempo protetti in quanto testimoni della verità del Vecchio Testamento, secondo la lettura teologica agostiniana.
Nell'ambito di questo paradosso trovano spazio l'aperta discriminazione, sancita dal IV Concilio Lateranense (1215) con l'imposizione della rotella come segno distintivo, e le ricorrenti persecuzioni, di volta in volta fomentate dalle infamanti accuse di avvelenare i pozzi per seminare la pestilenza, o da quelle di praticare l'infanticidio rituale o dalla forsennata propaganda antigiudaica dei frati predicatori. Ma anche atteggiamenti di benevola tolleranza che hanno consentito agli ebrei, benché esclusi dalle corporazioni, gravati da pesanti tributi e da uno status giuridico penalizzante, di raggiungere l'eccellenza nell'arte medica e di svolgere una funzione finanziaria (il prestito su pegno) decisiva sia per l'economia locale sia per le dissestate finanze dei diversi sovrani.
In questa monumentale opera di ricomposizione delle tracce disperse della presenza ebraica in ogni città, paese e borgo d'Italia, che ha come sfondo tutti i più grandiosi e drammatici scenari (le crociate, l'Inquisizione, la nascita e il crollo degli imperi) della storia dell'Occidente, Calimani individua nella ricchezza della tradizione giudaica la forza che non solo ha preservato l'identità minacciata degli esuli, ma ha alimentato un dialogo reciprocamente fecondo con la cultura italiana ed europea.

giovedì 11 aprile 2013

Le vicende del bravo soldato Svejk




Jaroslav Hašek, "Le vicende del bravo soldato  Švejk durante la Guerra Mondiale" (Einaudi, note al testo, traduzione e postfazione di Giuseppe Dierna, glossario di lessico militare tedesco, pagg. 1020)    (In libreria anche: Bertold Brecht, " Švejk nella seconda guerra mondiale" (Einaudi, pagg. 96), opera teatrale di Brecht ispirata al romanzo di Hašek)

Uscito per Einaudi I Millenni nel 2010, esce ora in edizione Einaudi "tascabile" (collana ET Biblioteca; c'era anche anni fa per Feltrinelli in due volumi, ma è fuori catalogo) il romanzo più celebre della Letteratura Ceca ("il primo libro ceco tradotto in tutte quante le lingue del mondo!" e "il miglior libro umoristico di satira dell'intera letteratura mondiale!", così era scritto nel manifesto pubblicitario per il lancio dell'opera), testo monumentale dello scrittore praghese Jaroslav Hašek (1883-1923), pubblicato originariamente tra il 1921 1922, e rimasto incompiuto per la morte dell'autore nel gennaio del 1923.

Jaroslav  Hašek nasce a Praga nel 1883. Diventa famoso come autore di racconti umoristici e come giornalista di riviste e quotidiani. Personaggio eccentrico, anarchico, animatore delle osterie praghesi, finisce spesso, con i suoi atteggiamenti bizzarri e provocatori, per dividere i giudizi e le coscienze di una Felix Austria ormai a fine corsa. Angelo Maria Ripellino ne parla a lungo in "Praga Magica", ripercorrendo i luoghi dei suoi vagabondaggi.
Partito nel 1915 per la guerra sul fronte galiziano, scompare per sei anni nelle terre russe dove, all'indomani della rivoluzione, si unisce alle fasce più radicali della resistenza ceca filosovietica fino a entrare nell'Armata Rossa. Nel dicembre del 1920 il suo rientro a Praga gli procura non pochi grattacapi, come l'imputazione per bigamia (si era sposato per la seconda volta con una donna russa) e le accuse di propaganda bolscevica e di alto tradimento nei confronti del popolo cecoslovacco. Muore nel 1923, non ancora quarentenne, nella cittadina di Lipnice, dove si era trasferito per continuare a scrivere "Le vicende del bravo soldato Svejk" senza la costante tentazione delle osterie di Praga.

Seguendo le avventure picaresche del "bravo" soldato Svejk in marcia verso l'inarrivabile fronte orientale, Jaroslav Hašek traccia una satira impietosa della guerra e della società dell'epoca con tutte le sue istituzioni: l'esercito, il clero, la burocrazia ottusa, l'amministrazione corrotta...

Irène Némirovsky. Una pedina sulla scacchiera




Irène Némirovsky, "Una pedina sulla scacchiera" (Adelphi, pagg. 175)

Prosegue con questo testo scritto tra la fine del 1932 e l'inizio del 1933 la pubblicazione presso Adelphi delle opere di Irène Némirovsky (1903-1942)

"I padri hanno mangiato l'uva acerba e i denti dei figli si sono allegati" è scritto nella Bibbia. All'era dei pirati della finanza e dell'industria, degli imperi economici costruiti sui campi di battaglia è succeduto lo scenario desolante degli anni Trenta: la borsa in caduta libera, la crisi, la disoccupazione – e "tutti quegli scandali ignobili, quei processi, quei tracolli privi di grandezza"...
Come molti della sua generazione, Chris­tophe Bohun non ha né ambizioni, né speranze, né desideri, né nostalgie. È un modesto impiegato nell'azienda che suo padre – il Bohun dell'acciaio, il Bohun del petrolio, l'uomo del quale si diceva: "Dove passa lui crescono solo rovina e guerra" – è stato costretto, dopo un clamoroso fallimento, ad abbandonare nelle mani del socio. Si lascia svogliatamente amare da una moglie di irritante perfezione e da una cugina da sempre innamorata di lui. "È la pedina" annota la Némirovsky sulla minuta del romanzo "che viene manovrata sulla scacchiera, che per due o tremila franchi al mese sacrifica il suo tempo, la sua salute, la sua anima, la sua vita". Alla morte del padre, però, Christo­phe trova in un cassetto, bene in evidenza, una busta sigillata: dentro, un elenco di parlamentari, giornalisti, banchieri a cui, nel tentativo di evitare il crac, il vecchio Bohun aveva elargito somme ingenti affinché spingessero il governo ad accelerare i preparativi bellici. Riuscirà questo bruciante retaggio, questa potenziale arma di ricatto, e di riscatto, a scuotere Christophe dal suo "cupo torpore"?