sabato 1 giugno 2013

John McPhee. Tennis



John McPhee, "Tennis" (Adelphi, pagg. 228)

Se c'è un libro in grado di dividere i lettori fra chi rischia di contrarre in una forma o nell'altra il morbo del tennis, e chi invece ne risulta immune, è questo. Dove si rivive, un punto dopo l'altro, la semifinale di Forest Hills 1968 fra Arthur Ashe e Clark Graebner – la prima disputata da un tennista nero agli albori dell'èra Open, ma anche e soprattutto la prima partita di tennis raccontata dall'interno del luogo enigmatico e fino ad allora inesplorato che il gioco abita, e spesso devasta: la mente del tennista. Guardandola per caso alla CBS, John McPhee era subito rimasto incantato dal magnifico arabesco che i colpi dei due protagonisti­ – diversi in tutto, e in primo luogo nello stile – disegnavano sul­l'erba. Ma rivedendo il match insieme a Ashe e Graebner – ascoltandone i racconti, trascrivendone le reazioni – McPhee lo ha poi ricostruito, con due soli accorgimenti: la demoniaca accuratezza descrittiva che ha fatto di lui una leggenda della narrativa americana, e i veri ingredienti del tennis: collera, spavento, esaltazione, freddezza, sconforto, orgoglio. Gli stessi che qualche mese prima McPhee aveva scoperto vivendo per quindici giorni a pochi centimetri di distanza dal prato su cui il tennis moderno è nato, per ascoltare e poi ritrarre dal vero, nel secondo testo che compone questo libro, uno dei suoi personaggi più indimenticabili: Robert Twynam, giardiniere capo di Wimbledon.

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