sabato 1 febbraio 2014

Tito di Gormenghast



Mervyn Peake, "Tito di Gormenghast" (Adelphi, nuova edizione, pagg. 545)

Apriamo "Tito di Gormenghast" (1946) di Mervyn Peake (1911-1968) e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta.

Ma c'è qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello - così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo.
E qui ha inizio la saga narrata da Peake, un'impresa grandiosa della letteratura fantastica - e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro l'esuberanza delle immagini.

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