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Libreria Torriani di Luigi Torriani (foto di Nicola Vicini)
giovedì 21 novembre 2013
Adriano Prosperi. Delitto e perdono
Adriano Prosperi, "Delitto e perdono. La pena di morte nell'orizzonte mentale dell'Europa cristiana. XIV-XVIII secolo" (Einaudi, rilegato, immagini, pagg. 582)
Nella notte tra il 1° e il 2 maggio 2011 il presidente degli Stati Uniti è apparso in televisione per un evento straordinario e ha annunciato alla nazione e al mondo la morte di Osama bin Laden. Le sue prime parole sono state: «Justice has been done», giustizia è stata fatta. «Giustizia», che ha la stessa radice etimologica del verbo «giustiziare». Cosí da far riaffiorare, in una sola frase, l'opposizione sostanziale su quale sia la funzione della giustizia: eliminazione fisica del malvagio o punizione che gli permetta di pentirsi e rigenerarsi moralmente? Vendetta, in sostanza, o perdono?
È una linea di frattura che affonda nell'antico codice classico, ebraico e cristiano, e che ha dominato la nostra cultura per millenni. Facendo i conti con quel passato Adriano Prosperi si interroga sui complessi legami che un'intera cultura ha instaurato coi condannati in carne e ossa fino a giungere a una compiuta cristianizzazione della morte come pena: uno spettacolo pubblico in cui la croce cristiana campeggia al centro di una grande festa crudele e dove sui patiboli si celebra l'offerta della vita del criminale sia come espiazione dei peccati sia come purificazione dal male per tutta la comunità. Con il concorso attivo di quelle Compagnie che si dedicavano al compito di consolare i condannati con le promesse del perdono divino. Da qui lo sterminato repertorio di argomentazioni teoriche e delle pratiche necessarie perché l'omicidio legale si trasformasse in un potente strumento di emozioni religiose.
Durante i secoli di un «lungo Medioevo» nelle città europee si venne progressivamente elaborando e strutturando un grande spettacolo: quello della morte per via di giustizia.
Come ogni dramma teatrale, ciò che manteneva alta la tensione degli spettatori era l'incertezza dell'esito. Erano in gioco due vite, quella del corpo e quella dell'anima e tutte e due rimanevano in pericolo fino alla fine: una fine che si prolungava oltre l'esecuzione, quando il corpo rimaneva esposto alla folla, talvolta squartato e infilzato sulle picche talvolta pendente dalla forca, talvolta ancora «sparato» dai chirurghi nel rito della «notomia» pubblica. La sorte del corpo e quella dell'anima entrarono a far parte dei dialoghi che si svolsero tra il condannato e la folla per incanalarsi poi all'interno del confronto tra il condannato e gli esperti nell'arte del conforto, i membri di confraternite che si specializzarono in questa funzione e che, fiorite inizialmente nell'Italia centrosettentrionale fra Trecento e Quattrocento, si diffusero in seguito in tutta Europa.
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