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giovedì 10 luglio 2014
Diocleziano
Umberto Roberto, "DIOCLEZIANO" (Salerno Editrice, pagg. 394)
Oppresso dai suoi mali interni e minacciato dalle aggressioni dei barbari, alla metà del terzo secolo il mondo romano era un organismo invecchiato e sull’orlo del collasso. Diocleziano salì dal nulla ai vertici della carriera, si impadronì dell’impero con la violenza, governò con feroce determinazione per più di venti anni, dal 284 al 305. Ma i fasti del potere non cambiarono la sua natura: rimase sempre un soldato. Diocleziano non fu un rivoluzionario, come Augusto o Costantino. Seguendo il suo istinto di soldato, pensava che la rifondazione dell’impero dovesse procedere nel rispetto supremo della tradizione, della religione dei padri. Alla fine trionfò su tutti i suoi nemici: usurpatori, barbari, Persiani. In segno di riconoscenza agli dei scatenò durissime persecuzioni contro i dissidenti, gli empi seguaci di religioni lontane dalla tradizione: i manichei, che arrivavano dalla Persia sasanide; e, avversari ancora più insidiosi, i cristiani. Al culmine della gloria, al momento di godere di una pace finalmente riconquistata, Diocleziano abdicò. Fu una scelta inaudita, inaspettata, unica nella storia dell’impero romano. Perché abdicò? Malattia, stanchezza, delusione? O, piuttosto, volontà di applicare un progetto politico teorizzato negli anni? La scelta di Diocleziano è un enigma che continua ad affascinare gli storici. Sicuramente contò il desiderio di congedarsi dai duri impegni della sua missione. Diocleziano si ritirò lontano, in un grande palazzo che s’era fatto costruire vicino Salona, in riva all’Adriatico. Erano i luoghi dei suoi primi anni, delle sue memorie più care; i luoghi che aveva scelto per il suo ultimo riposo.
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